[il testo è stato scritto circa due mesi fa. Non l’ho voluto rileggere, né penso che lo rileggerò. C’è soltanto una parte carina.]
Per una volta farò una cosa per me. Tutto ciò che segue è stato scritto per me; il destinatario non avrà il privilegio della diretta resipiscenza dopo la lettura. Nel momento del parossismo doloroso che incombe – se non ha già colpito, portando con sé una pestilenza sentimentale – egli si illuminerà, riconoscerà finalmente le sue colpe e ammetterà di aver sbagliato. Quello di indicargli meticolosamente i suoi sbagli sarebbe un regalo troppo generoso. Può darsi che sarebbe anche una sciocchezza da parte mia pretendere di fare un gesto del genere e di credere che tali delucidazioni debbano venire da individui esterni.
Bisogna conoscere se stessi per ammettere di avere sbagliato. Bisogna rinunciare all’orgoglio, racimolare coraggio e porsi ignudi di fronte a se stessi, affinché si possa combattere il proprio lato meno umano. Riconoscere di aver fatto soffrire farà a sua volta soffrire: ma forse lungo questa inerpicata via epicicloidale di dolore si estinguerà la causa prima. Il dolore di un amore nocivo.
Veniamo al mondo a nostro rischio: sappiamo mentire, quindi nulla esclude che i nostri simili lo sappiano fare. Perché non mentiamo? Perché a nostra volta non vogliamo cadere vittime di disoneste illusioni. Un’attitudine quasi superstiziosa: “visto che non racconto menzogne, tutti cercheranno di dirmi la verità per questione di rispetto”. Una bugia è come un nemico in guisa ad una festa: finché, a insaputa di tutti, offre un prezioso contributo al buon andamento della serata, è innocuo. Una volta svelatane l’identità, tuttavia, l’atmosfera di trasforma di un caos vorticoso di amarezza, inquietudine e mestizia. “Avrei dovuto saperlo”. Chi ha avuto il benché minimo sospetto: “Avrei dovuto agire prima”. “Avrei dovuto tirarmene fuori”. “Avrei dovuto”.
Bugia svelata, quasi tangibile: eppure non riusciamo ad acchiapparla e farla sparire. Uno spettro nero che sentiamo, senza sapere dove sia. Si è rifugiata nel nostro corpo, dove si nutre della debole vittima fiducia? Eterea, fluttua nell’aria in cerca della prossima preda? Questi dettagli contingenti nulla contano di fronte al figlio luciferino della razza umana. Come Dio si renderebbe manifesto attraverso le sue creature, la bugia si palesa a partire dalle sue macabre orme che prendono la forma di ferite nell’anima.
Siamo creature resilienti: ci lecchiamo le ferite e non ci rassegniamo. Dall’anima non si sanguina. Teoricamente non vi è nessun rischio di morte collegato all’essere imbrogliati a parole, strettamente parlando. Gli umani sono tendenzialmente clementi: come conoscono la precaria situazione dello statuto di verità di ciò che sentono, ovvero come riconoscono la possibilità che qualcuno possa loro mentire, imparano dalla propria esistenza che è possibile sbagliare. Anzi, sbagliare è proprio umano. Noi tutti vorremmo una seconda possibilità – dunque le dispensiamo, chi con più moderazione e chi meno. Non tutti la ricevono: quanti avi che sarebbero morti e ri-morti per una seconda possibilità! Eppure esiste ancora chi la riceve e sguazza nell’ignorante ingratitudine di chi pensa di meritare di più.
Non è facile decidere di dare una seconda possibilità. Cosa comporta tale scelta? Il gesto consiste nell’estremo sacrificio di se stessi; è un riavvicinarsi a un tasso spaventato dopo essere stati morsi, è un riaccostarsi alla lingua di fuoco che avrebbe dovuto scaldarci, ma che ci ha lambiti con le sue dita infernali. Mostrare clemenza nei confronti di un bugiardo è un gesto che presuppone una fiducia ancora maggiore di quella che si sia mai potuta avere prima. Un trascurare un dolore altrimenti impreteribile, con innocenza e con speranza. Nascondere la guancia arrossata e indolenzita, per porgere l’altra guancia – come immolare una giovane vergine al fine di perpetuare la benedizione di una divinità possente quanto l’Amore.
L’Amore entra in due corpi e li lega inscindibilmente. Il passato s’annulla o s’amalgama in un’astrazione in cui balena l’immagine di una fantomatica conoscenza prima della conoscenza. Il presente e il futuro si fondono in un unico miraggio in cui si vede una bucolica scena di sempiterna felicità condivisa. Perché tu ridi, riderò anche io; perché piangi, piangerò di più.
Scrivere mi diviene arduo. Ogni parola è un chiodo conficcato nella schiena. Dovrò diventare per forza più concisa e ti rivolgo, o ignaro …, una domanda: come hai potuto attribuire a me la colpa della sofferenza con cui hai tormentato la mia vita? Come hai osato indietreggiare davanti al fantasma dei tuoi errori soltanto per orgoglio? Un orgoglio che Amore non ha mai conosciuto. Io credevo di aver conosciuto l’Amore. Ma tu non hai voluto conoscere me. Cos’è stato tutto se non adesso un bagaglio di ricordi, alcuni sereni, altri grevi. Non potrai inficiare le gioie del passato. Non avrai mai l’onore di avvelenare ciò che conservo di buono.
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